Homo Creator | Elogio del Design Autoprodotto | Il bricoleur e la capacità ricombinatoria
articolo in Urban ManUfactUring | SISTEMI&IMPRESA | luglio/agosto 2014
La denominazione artigiano digitale è una delle espressioni che alimentano da mesi le conversazioni intorno a una sempre più spesso abusata retorica smart. Pare affermarsi sempre più insistentemente nell’immaginario collettivo, l’dea che le nostre vite saranno in un futuro prossimo accompagnate da oggetti colorati di ogni genere, stampati con tecnologie additive e che il demiurgo di tale esplosio- ne di innovazione e creatività sia incarnato nell’immagine di un operatore di stampa 3d altresì detto artigiano digitale.
In realtà dietro al riaffermarsi del valore di una produzione artigianale, è sottintesa un’idea molto più profonda di volontà/necessità di riappropriazione della cultura del fare, il cui valore è principalmente dato dalla capacita ricombinatoria.
Come suggerisce Stefano Micelli nel suo recente saggio Futuro artigiano, per comprendere tutta la potenza della capacità ricombinatoria, occorre rifarsi alla definizione operata da Claude Levi- Strauss nel suo scritto Il pensiero selvaggio. Parlando di conoscenza scientifica, Levi-Strauss descrive la contrapposizione tra ingegnere e bricoleur: “Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati ma, a differenza dell’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime o di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via via ‘finito’ di arnesi e materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun pro- getto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o di distruzioni precedenti. […] Il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne o rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli vien posto.”
Claude Lévi-Strauss, 1962, La pensée sauvage, Plon, Paris, trad. Il pensiero selvaggio, Il saggiato- re, Milano 1964, pp.30-31
Fablab: laboratorio,fabbrica e bottega
L’affermarsi della figura dell’ingegnere (da inten- dersi genericamente come uomo di scienza) che in questo ultimo secolo è stata ritenuta deposi- taria del Sapere, ha svuotato della prerogativa di una sapienza profonda l’idea del fare.
Ne segue che per decenni i mestieri manuali, se si escludono alcune nicchie di produzione stret- tamente legate a un’espressione artistica stori- cizzata, sono stati considerati attività di ripiego rispetto alle cosiddette attività puramente scientifiche e intellettuali. Con un sempre più accen- tuato scollamento tra ricerca, progetto e oggetto prodotto.
Tra i primi a evidenziare quanto questa distanza abbia impoverito entrambe le attitudini verso la conoscenza scientifica (ingegnere e bricoleur), fu Neil Gershenfeld, professore al MIT di Boston, osservando come l’incapacità manuale dei suoi studenti si ripercuotesse anche sull’ingegno delle loro soluzioni. Gli studenti osservati da Neil Ger- shenfeld avevano perso completamente la capacità ricombinatoria, ovvero la possibilità di trovare una soluzione partendo dal ‘capitale’ in essere contingente. Neil Gershenfeld nel 1998 individuò la soluzione nell’istituzione dei fablab, laboratori di fabbricazione, luoghi dove i saperi di ingeneri e bricoleur potessero contaminarsi nuovamente in un confronto di pari dignità e apporto critico. Questa ibridazione diede risultati al di sopra delle aspettative, sia in termini di potenza della condivisione di saperi e competenze (intelligenza collettiva), che in termini di concreta innovazione risolutiva degli oggetti-macchine costruiti. Lo stesso Neil si adoperò negli anni seguenti per diffondere la formula Fablab in giro per il mondo, favorendo l’apertura di laboratori che fossero principalmente vocati alla risoluzione di problemi locali. Il tutto attraverso la gestione partecipativa della manifattura locale. Messa in grado di attingere all’immenso bacino della condivisione globale delle conoscenze attraverso la rete e agevolata dalla disponibilità di strumenti e macchine le cui barriere di accesso in termini di costo si sono pressoché abbattute, la manifattura locale esprime capacità creative e produttive inespresse e inaspettate.
La democratizzazione dell’acceso alle risorse creative e il potenziale della coda lunga!
Si è già detto di come parlando di artigiano digitale si tenda a confondere il mezzo del fare (vedi stampa additiva) con il fine del fare.
Le tecnologie definite come innovative sono tra le mani delle grandi industrie da parecchi decenni. Quindi piuttosto che parlare di rivoluzione industriale pensando alla stampa additiva sarebbe più corretto dire che ci troviamo di fronte l’opportunità di ridefinire in maniera più democratica una parte del processo produttivo globale. Gli sviluppi più interessanti resi possibili dalla diffusione di massa di tecnologie produttive quali la stampa 3d o il taglio laser sono da ricercarsi infatti nell’evo- luzione del piccolo artigianato e nell’opportunità offerte ai designer. Si pensi soprattutto ai creativi più giovani che hanno la possibilità di prototipare e autoprodurre in piccole serie.
Le potenzialità di questa economia che nasce dal basso non sono da considerarsi un fatto puramente utopico, privo di sviluppi o sbocchi economici reali. Il design autoprodotto è una strada concretamente percorribile. Ha un fattore di rischio limitato, non richiedendo grandi investimenti iniziali ed è forte dell’abbondanza ed eterogeneità di utenti offerta dalla rete. Il design autoprodotto trova nella rete trova un canale diretto per raggiungere i destinatari finali, rispondendo alle aspettative di quelle nicchie di mercato che determinano ciò che Chris Anderson ha definito la ‘coda lunga’:
Coda lunga: la democratizzazione della produzione.
Grafici tratti da: (Chris Anderson, 2006,The long Tail Why the Future go Bussiness Is Selling Less of Mor. La coda lunga. Dal mercato di massa a una massa di mercati, Codice edizioni,Torino, 2010)
“Dai registi ai blogger i produttori di ogni genere che esordiscono nella coda con scarse aspettative di successo commerciale possono concedersi il lus- so dell’azzardo. Sono disposti a correre più rischio perché hanno meno da perdere. Non c’è bisogno di permessi, né di business plan, né di capitale. Gli strumenti della creatività oggi sono poco costosi e il talento è più diffuso di quanto abbiamo mai pensato. Vista sotto questa luce, la coda lunga promette di diventare un crogiolo di creatività, un luogo in cui le idee nascono e crescono prima di evolversi nella forma commerciale.
(Chris Anderson, 2006, The long Tail Why the Future go Bussiness Is Selling Less of More, trad. La coda lunga. Dal mercato di massa a una massa di mercati, Codice edizioni, Torino, 2010)
Risultato: più materiale che allunga la coda |
Risultato: più accesso alle nicchie che ingrassa la coda |
Risultato: spostare il business dalla testa alla coda |
Il design autoprodotto e la cultura di senso degli oggetti
L’autoproduzione esalta la capacità progettuale facendo riferimento al valore dell’oggetto (progettista). La reputazione che il creativo costruisce nella sua nicchia di ‘coda’, anticipa e consolida le prospettive di sviluppo economico successivo anche in altri ambiti di mercato.
Questo processo è fondamentalmente un fatto culturale e sociale: l’autoproduzione apre la strada ai nuovi scenari dell’autodeterminazione rispetto a una cultura della produzione massificata, divenuta negli ultimi decenni sempre più spesso priva di significati. Soprattutto quando accompagnata da un processo in qualche modo partecipativo, sollecita un cura e un’attenzione diversa nei confronti degli oggetti; del valore progettuale sottinteso anche in termini di condivisione e col- laborazione; del dispendio di materiale ed energia messi in atto per la produzione.
L’uomo torna ad essere creatore in quanto produttore di significati.