Carlo Salone
Più di tutto temo la servitù volontaria cui il panico sociale di fronte alla fiammata improvvisa della catastrofe sanitaria sembra condurre.
L’abdicazione dal senso di responsabilità individuale.
La delega in bianco conferita non già alla scienza, di per sé comunque divisa e attraversata da opinioni discordi, ma a una politica incapace di prendere decisioni sul futuro e non solo sull’oggi.
L’insorgenza di comportamenti (auto) vessatori negli individui che si trasformano in guardiani di un ordine imposto all’emergenza.
Il crollo della fiducia nel prossimo, palpabile negli sguardi sfuggenti sui marciapiedi delle città semideserte e risposta quotidiana al rito propiziatorio dei canti collettivi dai balconi.
Il disciplinamento delle menti attraverso il controllo politico dei corpi.
E la solitudine radicale che da tutto ciò può discendere, come un pesante manto funebre sulla bellezza disordinata delle nostre città.
Quello che desidero è la libertà delle menti e dei corpi.
Lo squarcio nel velo di questa necessità che sembra incombere su tutti come un destino ineluttabile.
Lo slancio verso il progetto, per un mondo che non potrà essere come prima ma che non potrà nemmeno essere tanto diverso.
L’accettazione dei limiti della razionalità e, allo stesso tempo, l’adozione di condotte che a questa razionalità limitata si ispirino.
L’abbraccio dei miei genitori.
L’odore della pelle accarezzata dal sole, di cuoio macerato al sole.