Paolo Aliverti
Parete nord della Grabiasca. Febbraio 2019.
Avvolto nella nebbia salgo lungo un canale ricoperto di ghiaccio e neve.
Alcuni fiocchi si sciolgono sulla faccia.
Non sò a che punto sono della salita. Son 500 metri e ho perso la cognizione del tempo.
Fa freddo tanto che l’acqua gela nello zaino. I piedi e le mani sono insensibili e fanno male.
Le gambe tremano in preda ai crampi e mi aggrappo alle picozze piantate nel ghiaccio.
Il punto di non ritorno è superato. La linea è passata.
Dovrei avere paura. Ma non posso permettermelo.
Salgo lentamente e con angoscia.
Temo che un rampone non faccia presa o che della neve cada dall’alto del canale.
Bisogna fare in fretta e mi accorgo di quanto sono solo, li nel mezzo della parete.
Un puntino rosso che sale lungo una vena di bianco ghiaccio.
Non sono nulla e potrei sparire.
Penso alla casa, ai miei figli, a un bagno caldo.
Un brivido nero e il timore di non vederli più.
Si apre una nube sopra alla mia testa.
Il canale di ghiaccio si illumina.
Scopro di essere quasi in cima. Pochi metri ancora.
Con affanno resisto ai dolori. Richiamo le ultime forze.
Un passo dopo l’altro, una spanna dopo l’altra la distanza si riduce.
Mi affaccio sulla cresta.
La valle è tutta illuminata e gli ultimi fiocchi di neve volteggiano nel vento.
L’auto è a 5 ore di cammino ma ormai sono certo di poter tornare.
Il sole mi scalda lentamente.
Una cordata sale dall’altro versante.
Li raggiungo: “ciao”, “da dove venite?”, “dove andate?”, “buona salita”.
Mi pare di conoscerli da sempre.
Persone come me, uomini e donne, fratelli e sorelle che salgono sperando di trovare se stessi e riportarsi a casa.
Rasserenato scendo a passo svelto e lieto