Stellina Serpico
Non dormo. Sono ore di attesa, ore che non smettono di finire i loro maledetti minuti.
Ci sono mani, infinite mani che mi toccano: prima gli occhi, poi il naso, infine la bocca.
Mani, troppe mani che mi svegliano di notte e io vado in bagno, le lavo tutte e le strofino col sapone.
Vedo un medico, un infermiere, un addetto delle pulizie, un volontario della protezione civile.
E più le lavo quelle mani, più scopro che non appartengono a nessuno di loro.
Guardo il telefono e aspetto.
Sento da lontano una voce, anche se non ha mai squillato.
Mi dice che la febbre è scesa, che la febbre non scende, che non respira.
A un certo punto tossisco e mi pare di riconoscerla. E’ persistente, stizzosa, senza febbre.
Poi, rivedo in quelle parole, uno degli asintomatici pericolosi percorsi vissuti in quei due mesi di decreto assenza. Un tempo ignaro e impotente, così mostruosamente mortale.
E di nuovo sento l’attesa e penso al metro di distanza che non può esistere nelle famiglie, perché le famiglie non abitano tante case, perché la casa è la casa ed è unicamente una sola.
Tutto ricomincia a contagiarsi e si propaga sulle persone, sugli oggetti, diventa pandemia.
Infine entra, nella gola, nello stomaco, nei polmoni e sbatte il cuore, come fosse una porta semiaperta quando fuori c’è tanto, tanto vento.
Sento che mi urta e allora dondolo ogni volta che sbatte e la lascio fare, dimenticandomi del rumore. Divento uno. Divento casa.
Ricominciano i minuti di quella stessa maledetta ora. Fisso di nuovo il telefono e aspetto una telefonata che accenda la luce.
Poi mi rivolgo alla finestra della cucina, anche se è chiusa, anche se fuori è notte.
In quel buio, provo ad immaginarmi l’arcobaleno e tale sforzo mi stanca al punto che forse mi riaddormento, forse sogno, forse è solo un incubo.
Il Desiderio è una parola orribile.
Desiderare, che parola orribile.
Sono le 23 ed è così che la sento. Fuori tempo.
Una parola fuori luogo come chi fa jogging intorno al perimetro della globalizzazione.
Quanto dolore perdere le proprie radici.
Chi l’avrebbe mai detto che ce ne saremmo accorti.
Chi avrebbe mai potuto realizzare un corteo di bare.
E vorrei sentirti, dentro di me. Vorrei accarezzarti, ma la quarantena delle mani me lo impedisce.
Mi impedisce di avere figli, di essere madre, di essere donna.
Ti immagino. Mentre ti leggo una fiaba. Mentre ti sforzi di non chiudere gli occhi per essere lì quando pronuncerò le parole: “E tutti vissero felici e contenti”.
Mi giro nel letto e trovo anche te, che già dormi, che sogni, che mi sorridi.
Non avevo bisogno di desiderare: avevo tutto.
E adesso invece voglio: voglio una mascherina, voglio l’ossigeno, voglio che tu respiri. Voglio che i tuoi polmoni guariscano, voglio che vivi. Svegliati e vivi!
Perché ancora non ti conosco, perché ancora non ti ho abbracciato, perché ancora non abbiamo giocato a carte insieme.
Perché tua nipote é seduta in classe e non si aspetta di vederti arrivare. Finché, continuando a guardare fuori dalla finestra, ti trova sotto quel cappello e finalmente grida ai suoi compagni: “Quello è il mio nonno!”;.